Intervista a Claudio Massimo, alla ricerca dei sensi ancestrali con “Aaron e gli dei combattenti” e “La spilla di luce”

Claudio Massimo.

Claudio Massimo ha 51 anni, coniugato da 22 e padre di una ragazza di 19. È una persona semplice, che cerca di vivere in simbiosi con il tutto, ma che – riportando le sue stesse parole – fatica sempre più a esistere in una società che per il profitto tende a sacrificare quanto di più prezioso c’è.

Una frase emblematica la sua che riassume in qualche modo il significato alla base di “Aaron e gli dei combattenti”, suo romanzo d’esordio, e del suo seguito “La spilla di luce”. Due libri di una trilogia dal sapore sentimentalistico e avventuroso in cui l’amicizia, l’amore e l’onestà hanno valori inestimabili. Esattamente come la scrittura, che per Claudio non è solo questione di tecnica, ma soprattutto di istinto, di pura emozione…

 

Da dove nasce la tua passione per la scrittura?

Nasce all’incirca all’età di dieci anni, quando ho cominciato a scrivere i miei primi racconti. Ho sempre amato fantasticare, e se devo ringraziare qualcuno per avermi introdotto dapprima alla lettura e poi alla scrittura, questa è mia madre. Ricordo ancora quando per tenermi buono, incominciava a raccontarmi storie che appartenevano alla sua infanzia. Aveva un dono particolare e la capacità di affascinarmi con i suoi racconti a volte bizzarri. Grazie a lei ho sviluppato l’interesse per la lettura, e il dono più grande che mi fece fu quando a nove anni mi regalò il suo sussidiario del 1937 dove c’era di tutto: dai racconti dei fratelli Grimm (i musicanti di Brema fu quello che più mi affascinò) alle poesie del Carducci e del Pascoli, passando per alcuni stralci del libro cuore del De Amicis. Mi si aprì un intero mondo.

 

Leggere è base prioritaria per approdare alla scrittura. Ci sono autori o libri che ti hanno influenzato in particolar modo, conducendoti alla scrittura?

Amo in particolar modo i romanzi storici, e gli autori che più mi hanno influenzato sono: Valerio Massimo Manfredi, Ken Follet e Il Defonso Falcones. Per far capire in che misura, ricordo un simpatico aneddoto durante l’editing della spilla di luce, quando in una nota a margine il mio editor mi scrisse: “smettila di fare l’architetto, dimentica Ken Follet.”

Ma il primo libro in assoluto che mi ha affascinato e condotto alla scrittura dei miei primi racconti è stato l’isola del tesoro di Stevenson, che rileggerei ancora oggi.

 

Cosa significa dare vita a un libro? Qual è la scintilla che scatta in te quando scrivi?

Dar vita a un libro significa mettere a nudo una parte di te, quella parte più sensibile e profonda che viene fuori solo attraverso la scrittura. D’altronde se si vuole emozionare chi legge, devi essere il primo a emozionarti. Se quello che scrivi non ti emoziona, difficilmente riuscirai a trasmettere emozioni. Scrivere non è solo questione di tecnica, ma di istinto e sentimento, che sono la scintilla che fa esplodere dentro di te la voglia di condividere con altri le tue emozioni e il tuo mondo interiore.

 

Parlando dei tuoi libri, “Aaron e gli dei combattenti” è stato il tuo romanzo d’esordio. Da dove nasce l’idea che ti ha portato a raccontare questa storia?

Dalla voglia di lanciare un messaggio: recuperiamo quelli che per i druidi erano i primi dei sette sensi: istinto e sentimento, i sensi ancestrali che ci fanno sentire un tutt’uno con quello che ci circonda. Viviamo in una società che ci sta portando all’estremizzazione del consumismo compulsivo come unica strada per la felicità; ma è solo un surrogato di breve durata, svanito il suo effetto illusorio, ritorniamo alla ricerca di un nuovo surrogato che ci dia l’illusione di sentirci realizzati. Tutto ciò lo stigmatizzo con una frase: viviamo nell’era dell’avere, dove l’essere è stato sostituito dall’apparire. Purtroppo questa continua ricerca non solo ci rende più schiavi; ma anche più egoisti e individualisti, perdendo di vista i valori fondamentali su cui dovrebbe basarsi una società.

 

Una trama che si consolida e continua nel tuo secondo libro, “La spilla di luce”. Cosa vorresti che il lettore riuscisse a comprendere leggendo questa storia?

Che sentimenti come l’amicizia, l’amore e l’onestà non hanno valore, e se sono profondi ci ripagano di ogni cosa.

 

Se dovessi utilizzare tre aggettivi per definire i tuoi libri, quali sarebbero e perché?

Il primo che mi viene in mente è: ambientalistico. I celti veneravano la natura, perché in essa vi vedevano sia l’opera di un Supremo che il Supremo stesso, erano paradossalmente a quanto si crede monistici. Nella trilogia si viaggia spesso immersi nella natura e in luoghi incontaminati di straordinaria bellezza (la maggior parte delle location sono reali e visitabili in Irlanda).

Il secondo è: sentimentale. Il sentimento dell’amicizia nei miei libri è molto forte e sentito. Ogni essere che Aaron incontra nel Sidhe (l’altro mondo celtico) è pronto a sacrificarsi per il bene comune e per il Prescelto. La frase mantra del libro che apre le soglie d’accesso per il sidhe è: gli occhi di un amico sono un ottimo specchio.

Il terzo è: avventuroso, perché la saga è un avventuroso viaggio alla ricerca di quel giardino perduto e mai più ritrovato, seppellito da millenni di materialismo. Un viaggio alla ricerca di se stessi e dell’essenza della nostra esistenza.

 

In ambito letterario, hai nuovi progetti in vista?

Credo che con la fine della stesura della trilogia, riterrò conclusa la mia parentesi con il genere fantasy che, paradossalmente, non è il genere letterario che leggo.

Recentemente mi sono divertito alla stesura di racconti noir e thriller molto apprezzati da mia figlia che è il mio primo critico. Uno di questi ha partecipato a un concorso letterario ed è stato premiato al salone del libro 2018 e pubblicato dalla Historica edizioni in un’antologia di due volumi intitolata: Racconti dal Piemonte. Altri due racconti sono in selezione per altrettanti concorsi uno dei quali internazionale.

Credo che seguirò questa strada … mi farò guidare dal mio istinto.

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